Ci sono film che si limitano a raccontare storie. E poi ce ne sono altri che, quelle storie, te le fanno respirare, toccare, sentire. Roma (Alfonso Cuaròn, 2018) – vincitore del Leone d’Oro alla 75° Mostra di Venezia, candidato di punta nella categoria Miglior Film Straniero agli imminenti Oscar e primo esempio multi-distributivo (sala cinematografica /Cineteca di Bologna e piattaforma streaming/Netflix) a concorrere nelle categorie più importanti della prestigiosa manifestazione – è un prodotto di rara bellezza, così curato nei dettagli, toccante ma mai retorico ed estremamente autentico, da raccogliere consensi presso una variegata fascia di pubblici.

Esperimento narrativo dal sapore autobiografico, Roma narra le vicende di una famiglia messicana di inizi anni Settanta viste attraverso lo sguardo ingenuo della domestica Cleo – notazione nominale, riferita a Cleo dalle 5 alle 7 (Agnès Varda, 1962), che imprime al percorso di comprensione e accettazione del proprio status sociale una sorta d’ansia e impotenza, qui spalmati in un arco temporale ben più ampio di due ore, ma altrettanto provante. Cleo è una giovane donna capace di rendersi invisibile per svolgere al meglio le sue mansioni e non pesare sulla già complicata vita familiare dei suoi datori di lavoro (i coniugi Sofia e Antonio, i loro quattro figli e la di lei madre). Essa si occupa, assieme a un’altra domestica, dei bambini e della grande casa ubicata nel quartiere residenziale Roma Colonia, a Città del Messico, limitando la sua vita privata a svaghi fugaci e interazioni sociali frettolose. La sua dedizione è tutta per il mantenimento meccanico e scandito di uno status quo che, evidentemente, ha i minuti contati. Non solo a causa degli incidenti di percorso che costringeranno Cleo a fare i conti i suoi ritmi (frenetici) e le sue (altruistiche) priorità, ma anche a causa dei cambiamenti culturali che stanno interessando il suo Paese, con le consuetudini che vanno verso una rapida obsolescenza e le convenzioni che stanno diventando scomode, proprio come la vecchia Ford Galaxy che appare sempre meno adatta e più ingombrante da condurre e parcheggiare (trovata magnifica in grado di esplicitare il senso di una ricchezza ostentata, smaccata, ma anche precaria e rapida a svalutarsi).

Rigovernare gli ambienti domestici e stare al passo con le esigenze della coppia che si sfalda e dei bambini che crescono appare non solo sempre più difficile, ma anche più frustrante perché concretamente impossibile. Tutto sta cambiando, dal corpo fisico a quello sociale, dagli ambienti domestici agli spazi culturali, ogni cosa sembra allargarsi e deformarsi per adattarsi alle esigenze di un nuovo mondo. Sono da leggersi in questo senso molte delle soluzioni di regia adottate da Cuaròn. Si va dall’iniziale ritmo flemmatico e ripetitivo mostrante uno spazio ortogonale sempre uguale a sé stesso – in cui silhouette indistinguibili si muovono seguendo una ritualità che cancella tensioni e individualità – fino all’esplosione del nucleo familiare in frammenti diversi, capaci di sfondare le pareti e dislocarsi altrove, in cui diventa necessario accelerare i tempi per seguirli, osservarli tutti e tenerli in qualche modo insieme. Cleo è l’occhio che vigila, è il corpo che connette, è l’abbraccio che unisce. In quest’ottica la scala dei campi (più che dei piani) interviene in maniera fondamentale: non solo al variare e all’aumentare degli spazi d’azione la presenza di Cleo si carica di un peso più rilevante e la sua figura assume una fisionomia e un’identità più definite, ma lo stesso rapporto che la m.d.p. intrattiene con il suo corpo appare sempre più confidenziale. È proprio in questo modo che Cuaròn riesce nell’impresa di realizzare un film ad altissimo contenuto emotivo – in cui l’umanità finisce per traboccare da corpi e luoghi all’inizio apparentemente vuoti – senza risultare mai retorico, patetico o falso.

Cuaròn si tiene a debita distanza, cede pochissime volte ai piani ravvicinati (il carrello sull’abbraccio in spiaggia o il primo piano durante il viaggio in auto poco dopo, a tal proposito, risultano emblematici) e lascia che incertezza e anonimia prevalgano per buona parte del film (i volti dei personaggi si distinguono a malapena). Anche nei momenti più drammatici della storia il regista si guarda bene dal cedere ad articolate scene madri e a costruzioni amplificanti, ma tende piuttosto a mostrare il dolore fuori dal campo, o negli angoli più scuri del suo (eloquente) bianco e nero o negli anfratti dissolti dal fuori fuoco. Ne risulta una rappresentazione misurata e pudica degli eventi e delle reazioni che, anche quando diventano pubbliche, restano in qualche modo private. C’è una compostezza nella regia di Roma in grado di restituire il senso esatto della Storia raccontata, trasmessa, perfettamente in equilibrio tra il realismo della vicina quotidianità e l’astrattezza della più distante universalità. Così i campi lunghi non sono mai abbastanza lunghi da sovrastare il corpo in scena – fatta eccezione di quelli filtrati o riflessi degli aerei che sorvolano indifferenti i luoghi – ma nemmeno abbastanza corti da assegnare troppa importanza ai personaggi, personaggi che quegli spazi devono attraversarli a fatica (scrutando, percorrendo, correndo). Sotto l’aspetto simbolico non si può non accostare Roma a un film che della città italiana ne ha fatto – proprio come il quartiere della capitale messicana – un luogo familiare ed estraneo, rassicurante e inaffidabile: La Dolce Vita (Federico Fellini, 1960).

Come nel film di Fellini i personaggi diventano piccoli nel confronto con un ambiente che non riescono più a controllare e/o a comprendere. Gli ampi spazi (la festa nella grande casa, i panorami, la spiaggia) assegnano una percezione adeguata dell’esistenza e della conoscenza del mondo, lasciando loro in dono l’ingenuità e la nostalgia per le cose che non ci sono più o che sono semplicemente cambiate e un cinismo di protezione per le tragedie che si verificheranno. C’è un simile senso di caducità nella narrazione dei luoghi e degli eventi e un sentimento di arrendevolezza nell’atteggiamento dei protagonisti. Se però il Marcello de La Dolce Vita pare, alla fine, conformarsi al paesaggio decadente, crogiolandosi in un nullismo malinconico, la Cleo di Roma si rivela invece una forza tale da piegare la realtà, come fosse capace di cambiarla a proprio favore, mettendo in scena una vera e propria epica della resilienza. Insomma, se dai bei tempi andati si esce con un ruolo da protagonisti irrimediabilmente compromesso e le ossa rotte, alla nuova era si accede magari dalla porta di servizio, ma solo se ti sei fatto le ossa…



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